La pandemia COVID-19, tra i numerosi effetti, ha avuto anche quello di accelerare l’adozione diffusa di software di collaborazione e comunicazione per consentire l’assistenza medica a distanza e ridurre il rischio di trasmissione del SARS-CoV-2 tra i pazienti e gli operatori sanitari.
L’impulso alle nuove sperimentazioni di telemedicina si è reso necessario sia nella gestione dei pazienti cronici, ossia quanti hanno necessità periodiche di consulti e visite mediche, sia per la sperimentazione di nuove terapie. La digitalizzazione è alla base di questi nuovi sviluppi e ha portato all’affermazione della telemedicina oltre che dell’organizzazione interna, anche ospedaliera, sul piano virtuale.
Un lungo articolo pubblicato questo mese su The Lancet descrive le principali sperimentazioni avviate presso il Massachusetts General Hospital di Boston, negli Stati Uniti, in cui per la gestione dell’epidemia e il mantenimento della gestione ospedaliera, sono stati “istituzionalizzati” due sistemi: i turni virtuali del personale sanitario e un sistema di virtual intercom communication. Quindi sebbene i precedenti sforzi per espandere le offerte di assistenza virtuale siano stati accolti con resistenza, la COVID-19 ha evidenziato l’enorme valore dell’erogazione di cure a distanza e mai prima di questa pandemia erano emerse, con tanta forza, le lacune nella costruzione di solidi sistemi di condivisione dei dati per l’analisi su larga scala e in (quasi) real-time nel settore sanitario.
Sempre su The Lancet è stato fatto il punto sull’enorme mole di dati raccolti a livello ospedaliero, dalla gestione delle cartelle cliniche elettroniche, ai dati fisiologici, di laboratorio, di imaging, decisionali e di trattamento. Tutti dati registrati, e da cui si potrebbero trarre importanti informazioni per l’implementazione delle indagini epidemiologiche, oltre che per guidare i protocolli di trattamento quando i dati degli studi clinici non esistono o potrebbero essere troppo lenti per informare una situazione in rapida evoluzione. «Mentre il numero di sperimentazioni aumenta, i dati di trattamento in tempo reale si accumulano, immagazzinati nei sistemi ospedalieri», scrive The Lancet. «Quando si considera COVID-19, l’intuizione che potremmo ottenere da un insieme di dati raccolti e disponibili al pubblico, analizzati da ricercatori di istituti accademici e dell’industria, è inestimabile e necessaria».
Il ruolo delle società che fanno Clinical Data Management
Emerge come i dati siano alla base dello studio. Ma senza l’utilizzo di tecnologie per la loro gestione la loro utilità si disperde. È in questa sede che entrano in campo le società che si occupano di gestione e archiviazione dei clinical data.
Advice Pharma, in questo settore ha sviluppato il progetto HIBAD, che consente una gestione efficace dei dati clinici, integrando le informazioni disponibili presso le diverse strutture sanitarie e di ricerca, con l’obiettivo di utilizzare tali dati nella clinical research, anche con il supporto di strumenti di Artificial Intellingence (AI) e Machine Learning. Hanno partecipato allo sviluppo di HIBAD anche BioRep Srl, società del Gruppo Sapio, l’IRCCS Eugenio Medea, e Diabetes Diagnostics Srl. HIBAD prevede la costruzione di un sistema integrato di raccolta di campioni biologici e dati clinici per la ricerca biomedica, basato sulla tecnologia di gestione dati ICE (Integrated Clinical Trial Environment) di Advice Pharma.
Di recente si sono mosse sia la Food and Drug Administration (FDA) sia la European Medicines Agency (EMA) per incoraggiare un maggiore utilizzo delle tecnologie di condivisione dei dati e, sempre nel rispetto delle GCP (Good Clinical Practice), si assiste all’avvio di un nuovo modello, guidato dalla telemedicina, che si disancora dalle visite periodiche in loco e punta sulle tecnologie digitali che hanno un impatto positivo sia sulla tutela del paziente (che non è esposto a situazioni di pericolo, come nel caso della recente pandemia) sia sulla conduzione di studi e trial clinici.